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Festival Cinema Venezia 2009: recensioni film, interviste

 
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A Israele il Leone d'Oro, all'Iran quello d'argento: e si stringono la mano

di Boris Sollazzo

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Quest’anno il palmarès di Venezia ha riservato sorprese soprattutto fuori dalla stanza della giuria. Tra momenti commoventi e forti di speranza contrapposti a insulti di chi, fuori dal Palazzo del Cinema, della Settima Arte ha una opinione bassa, ricambiato.

Partiamo, però, dalla splendida scena, propiziata dal giornalista Francesco Castelnuovo per Sky Cine News (potrete vederla stasera alle 20.45 su Sky Cinema 1), che ha visto come protagonisti i due vincitori. Due esordienti, peraltro, sia pure con importanti storie alle spalle. La regista iraniana, ma soprattutto artista visiva di fama mondiale Shirin Neshat, che ha ritirato con la sciarpa verde pro-Mussavi al collo il suo Leone d’Argento per il suo Women whitout men (a dir la verità esperimento tanto forte quanto cinematograficamente insostenibile), sollecitata dal conduttore, ha atteso Samuel Maoz, autore e regista del film vincitore del Leone d’Oro, Lebanon, per stringergli la mano e abbracciarlo. “Il mio paese un giorno sarà libero- ha detto la prima-. Sì alla pace, no alla guerra, lo diciamo da ambasciatori dei due paesi”. “Parliamo il linguaggio dei sentimenti e del cuore, quello che davvero può cambiare le cose- risponde il secondo-, guardate i nostri due leoni che si toccano”. Un momento molto intenso che ha fatto passare in secondo piano tutto. Anche gli insulti subiti dal cast di Lebanon da parte dell’intellettuale di sinistra israeliano Shmuel Hasfari, che ha definito i quattro attori protagonisti “parassiti disgustosi e merde” (a rischio l’uscita nelle sale israeliane), per aver trovato il successo con un film sulla guerra avendo evitato la leva obbligatoria di tre anni del loro paese. Il conflitto raccontato è quello del Libano del 1982, ferita aperta e dolorosa della storia del loro paese, a cui il regista stesso, ora 47enne, partecipò, tornandone come un “guscio vuoto, ho fatto il film anche per perdonarmi” (per questo ha messo 20 anni a concludere la sceneggiatura). L’idea è stata quella di girare l’intero film dentro e dal carrarmato, lo sviluppo del film però approfitta di questo spunto narrativo e visivo potente, non decollando.

Tutta italiana invece la polemica del Ministro Brunetta, che pontificando sugli sprechi, ha prima detto “che mescolare cultura e spettacolo è un imbroglio e che non si deve dare un euro ai film”, e poi ha sottolineato che i parassiti del cinema sono “un’Italia molto rappresentata, molto “placida” e quest’Italia è leggermente schifosa”. Attacco frontale e inelegante che ha suscitato l’ira del regista de Il grande sogno, Michele Placido, pronto a querelarlo. Il nostro paese, insomma, non sorride: portiamo a casa solo due premi minori e discutibili: la Coppa Volpi alla pur brava Ksenia Rappoport, protagonista de La doppia ora di Giuseppe Capotondi (il miglior film italiano in concorso), che però sembrava meritare meno di Margherita Buy (Lo spazio bianco) e Sylvie Testud (Lourdes)-, il premio Mastroianni alla miglior attrice emergente a Jasmine Trinca (Il grande sogno). Una gaffe madornale: l’ottima attrice ha già all’attivo film con Nanni Moretti, Marco Tullio Giordana e Michele Placido, Cannes e Berlino lo sanno bene. “Ho tanto cammino ancora da fare- ha commentato con stile- e se dopo otto anni di carriera ho mantenuto una tale freschezza, vuol dire che non mi sono rovinata lungo la strada”.

Il riconoscimento più condivisibile è quello più coraggioso, il premio speciale della Giuria a Fatih Akin. Il suo Soul Kitchen, come ha detto anche lui stesso “è solo una commedia” ma ha una potenza visiva e una scrittura da grande film d’autore: probabilmente contribuirà a porre fine allo snobismo nei confronti della risata ai festival. Altamente drammatico, invece, il ruolo di Colin Firth in A single man di Tom Ford, il suo gay vedovo è forse la sua interpretazione più intensa di sempre. I due film più potenti e belli del festival, Life during wartime di Todd Solondz e Mr. Nobody di Jaco Van Dormael, due maestri forse troppo indipendenti, si devono accontentare di premi minori: l’Osella alla sceneggiatura per il primo, quello alla scenografia per il secondo, che ha vinto però il Biografilm Award per il miglior lungometraggio di finzione.

Alla fine, insomma, non rimane fuori nessuno dei film migliori (forse Lourdes) e, per questo, inevitabilmente la speranzosa ma fragile spedizione italiana ottiene solo briciole e tanto nervosismo, soprattutto, immaginiamo, nelle stanze di Medusa: Baarìa, il kolossal su cui hanno investito tantissimo, è rimasto completamente a bocca asciutta. Bello, invece, il segnale di sguardo al futuro: ben 6 opere prime premiate (contando anche il premio della sezione Orizzonti al filippino Engkwerto, sulle gang giovanili di Manila, e la vittoria di Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli in Controcampo italiano, che ha anche dato una menzione alla coppia Del Grosso-Anzellotti per il documentario su Vittorio Mezzogiorno, già insignito anch’esso del Biografilm Award). Un segnale forte, da aggiungersi al trionfo nella Settimana della Critica del durissimo lungometraggio iraniano Tehroun e dai begli esordi delle Giornate degli Autori. Sono gli autori del futuro una delle (poche) note positive di un festival abbastanza deludente.

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